Dialogo con Nelson Mauro Maldonato a cura di Sergio Petrosino

Sergio Petrosino: In uno dei suoi ultimi interventi pubblici, lei ha parlato di una regio ignota, termine utilizzato in esogeologia per indicare il territorio di un corpo celeste che si distingue dagli altri per la maggiore o minore intensità di luce riflettente. A guardar meglio questa insolita metafora sembra di riconoscervi i lineamenti dell’inconscio come generalmente viene inteso dalla psicoanalisi. Perché non utilizzare questo termine ampiamente collaudato?

Muoversi su un terreno già dissodato rende sempre tutto più semplice e rassicurante e, per dirla tutta, tiene lontano dalle temibili insidie concettuali e metodologiche che l’esplorazione libera e senza pregiudizi di un ambito così complesso porta inevitabilmente con sé. Vi è, tuttavia, un campo di forze più vasto di quello in cui Freud intravide istinti, desideri e pulsioni in permanente conflitto con istanze razionali ed etiche. Quel pluriverso di forze arcaiche all’origine di azioni, automatismi e motivazioni è irriducibile all’inconscio: termine, peraltro, dall’ampio spazio semantico, che custodisce nel proprio seno il normale e il patologico. Intendiamoci, sarebbe privo di senso, e perfino stravagante, sollevare obiezioni sui limiti di una teoria fondata sulle conoscenze di oltre un secolo e mezzo fa. Il passato non si giudica con le lenti delle nostre convinzioni o delle verità oggi ritenute tali.

SP: Aver identificato le forze motrici della psiche umana (pulsioni, istinti e dinamiche affettive profonde); aver storicizzato la soggettività, decentrandone le trame interne; aver capovolto la piramide della coscienza, lo ammetterà, è stata un’impresa intellettuale gigantesca, una pietra miliare nella storia della cultura umana.

Non faccio alcuna fatica ad ammetterlo. Quelle intuizioni, tuttavia, non esauriscono le prospettive. Oggi ne sappiamo abbastanza per poter dire che oltre l’inconscio (ma il discorso vale anche per la coscienza) vi sono altri territori. Occorre cercarli. Questa volta, però, non in un’altra scena dimenticata, per ricollocare un altro homunculus nell’uomo o, ancora, per dar corpo a una specie di demone che presiederebbe a tutti i fenomeni psichici. Niente di tutto questo. Occorre cercare quei territori per gettar luce nelle istanze profonde su cui poggia la scena illuminata che anima la nostra vita. Nondimeno, in assenza di un termine che demarchi più rigorosamente questo ambito fondamentale, utilizzerò questo termine nel mio discorso.

SP: Dunque, cosa è per lei l’inconscio?

Penso sia non solo il luogo del rimosso, lo spazio che deve entrare progressivamente sotto la sovranità della coscienza, ma il vettore della trasformazione dell’individuo: una sorgiva inestinguibile di immaginazione, di inversioni (e conversioni) prospettiche della coscienza. Si tratta di un territorio che raccoglie quel che la coscienza ha messo ai margini, riproponendolo in una diversa espressione simbolico-metaforica.

SP: Questo, immagino, abbia implicazioni anche per l’atteggiamento del terapeuta nei confronti dei contenuti inconsci del paziente.

Il terapeuta dovrebbe accostarsi all’inconscio del paziente alla ricerca non solo di indizi patologici, ma anche di possibilità evolutive inespresse. Un processo terapeutico è una ricerca creativa tra due sistemi psichici che agiscono e si influenzano reciprocamente. Occorre andare oltre la relazione asimmetrica tra il paziente che resiste e si difende, e il terapeuta che ne interpreta l’inconscio in modo neutro e imperturbabile. Bisogna liberare lo spazio della cura da atteggiamenti autoritari (che si presentano anche nella microfisica di un ascolto silenzioso) per inaugurarne un altro di elaborazione dei significati. Se il terapeuta pretendesse (o solo presumesse) di violare o scorticare la superficie in cerca di contenuti profondi, che devono restare tali, temo fallirebbe il proprio compito ed evidenzierebbe la propria incapacità di partecipare alla vicenda clinica del paziente, che è sempre un viaggio tra storie ed evenienze mutevoli. Occorre dare al paziente la possibilità di raccontarsi senza essere limitato da altri presupposti. La psicoterapia serve per accedere alla propria complessità, quella altrui, e le reciproche soggettività. Uno psicoterapeuta ottimo è solo un’idealizzazione.

SP: Mi pare voglia dire che ogni procedura terapeutica è basata su presupposti che producono risultati psicologici non confrontabili con quelli di altre procedure. Inoltre, che ogni asserzione sulla psiche di un paziente è, in qualche modo, pre-giudicata da quella del terapeuta e viceversa. È così?

Nello spazio terapeutico è sempre necessario cedere sovranità e questo vuol dire rimettere in questione ogni forma di arbitrarietà e pretesa veritativa implicita nell’interpretazione del terapeuta: questo anche per scongiurare il rischio che il potere della parola si converta nella parola del potere. La posta in gioco è il processo di elaborazione di senso cui partecipano la soggettività del paziente e quella del terapeuta in una reciproca interazione. In generale, penso che il punto di vista del paziente sulla propria esperienza non abbia meno valore di quello del terapeuta. In questo cammino, le asserzioni del paziente e quelle del terapeuta (entrambe, si badi bene, verità congetturali) smettono di rispondere a schemi gerarchici e autoritari. Intendiamoci: non porre limiti al paziente non significa rinunciare al proprio punto di vista. Ma se la ricerca di una verità non è una finzione, occorre ammettere che dietro una teoria non vi è alcuna neutralità, che c’è un oltre in ogni cosa. La stessa suggestiva asserzione fenomenologica, secondo cui occorre essere metodologicamente ateorici, rischia di essere un gesto estetico. No, i presupposti teorici sono inaggirabili. Non bisogna fingere di esserne immuni. Anche se, occorre ammetterlo, la consapevolezza delle questioni epistemologiche e metodologiche in psicopatologia non è scontata. È una questione non irrilevante che nella formazione di psichiatri e psicologi occorrerebbe una rigorosa educazione epistemologica sulla natura soggettiva dei propri assunti teorici.

SP: Chiarisca meglio. In che modo una rigorosa educazione epistemologica potrebbe mettere al riparo da errori metodologici?

Vede, la conoscenza ha, per sua stessa natura, un’ammaliante sensualità e una sua pericolosità. In ogni teoria è presente un nucleo di idee che genera sentimenti di comunione profonda con la realtà. La contemplazione di verità nascoste finisce con un irretimento, cui fa seguito, spesso inconsapevolmente, il ricorso a giustificazioni ex post – empiriche, logiche e ideologiche – che adeguano i concetti ai fenomeni, fino ad istituire solidarietà segrete tra teoria e realtà somiglianti a una sorta di pensiero magico. Chi tende a contemplare la verità si illude di possedere la realtà, senza accorgersi di esserne posseduto. Tale groviglio genera esperienze estetico-estatiche, soprattutto quando la felicità intellettuale è a tal punto intensa da trasformare la contemplazione in vero e proprio rapimento. A quel punto dubbi, angosce e piacere vengono sciolti nella propria verità teorica (all’interno della quale il mondo è sempre perfetto). Così, i dubbi, le esitazioni, l’incertezza divengono irrilevanti, dimenticando che la verità è anche fonte di errori, illusioni, regressioni.

SP: Come stabilire allora una distanza dalle nostre passioni senza lasciare che si attenuino o si estinguano?

Chi aspira alla verità deve diffidare del proprio narcisismo e cercarla, per così dire, al di là del principio di piacere. Quando si pensa più a fondo ogni evidenza diviene problema. C’è un oltre in ogni cosa, un fondo del fondamento da esplorare. Anche la più elegante delle teorie non può spiegare l’uomo. Aver cura di qualcuno è, invece, intuire una presenza dietro la propria presenza. Sono possibili solo movimenti di approssimazione, sguardi di confine sulla sua interiorità. Al più, si può aprire qualche porta o finestra per guardarvi dentro. Cosa del tutto impossibile con ortodossie, autoreferenzialità, dogmatismi o pretese oggettività. Invece, si ha troppo spesso l’impressione che in tanti, troppi in questo lavoro, abbiano in mano carte false, pronuncino parole dubbie, e si perdano in narrazioni e giochi di specchi salottieri.

SP: Ma considerare i vari paradigmi psicologici come modi della psiche di interpretare se stessa non relativizza la psiche, al punto che è impossibile farsi un’idea generale dei fenomeni psichici?

Qualsiasi ricerca delle regolarità e generalità dell’accadere psichico deve fare inevitabilmente i conti con la singolarità dell’esistenza (anzi dell’esistente), come premessa ad ogni ipotesi interpretativa, ad ogni analisi dei contenuti dell’inconscio del paziente e delle idee che egli ha su di sé. Del resto, la validità di una pratica è data dall’effetto che ha sul paziente. Il nostro sistema psichico è a tal punto variabile da moltiplicare all’infinito le asserzioni sul mondo. Nel lavoro concreto con i pazienti, occorrerebbe abbandonare qualsiasi dogmatismo e attingere invece ad un’ampia varietà di prospettive da applicare ai casi singoli. Questi possono esser meglio compresi solo a condizione che l’interprete sia libero di muoversi da una prospettiva all’altra. Credo che sia stato questo uno dei più importanti lasciti di Bruno Callieri, mio amato maestro, il quale invitava instancabilmente ad armonizzare modelli differenti in modo coerente e senza vieti eclettismi: un metodo che richiede senso della complessità, studio rigoroso e autocritica esigente, di questi tempi, moneta fuori corso.

SP: Questo implica prudenza nella formulazione delle ipotesi interpretative e una revisione costante dei presupposti soggettivi delle ipotesi formulate.

Occorre partire dal fatto che il terapeuta è, come pensava Jung, interrogante e interrogato. Non è colui che sa, giudica o consiglia, ma colui che è parte in causa del processo di emancipazione del paziente. Produrre ipotesi interpretative sull’esperienza psichica non lascia inerte colui che interroga: anzi, lo spinge a una continua revisione critica del punto di vista adottato, ad una chiarificazione dei presupposti da cui quelle ipotesi sono nate. Per altri versi, i processi psichici sono espressione di una tensione tra movimenti inconsci e coscienti, non di rado opposti. L’elaborazione di significati tra due universi psichici può essere validata solo da uno sforzo permanente di conoscenza sulla propria conoscenza. Questo vale innanzitutto per l’ascolto dei contenuti inconsci, il cui valore dovrebbe essere lo stesso dei pensieri consapevoli generati, per così dire, in regime diurno.

SP: Cosa intende dire?

Intendo dire che se ormai siamo convinti che immaginazione, sogni, fantasie hanno lo stesso valore del pensiero razionale, occorre inscrivere questi materiali in una logica naturale (del tutto diversa dalla logica formale) che interagisce con la coscienza orientandola verso mete evolutivo-adattative. È la continua integrazione e armonizzazione di sensazioni e percezioni (anche di quelle non ancora entrate nella coscienza o che l’inconscio gli propone) che consentono al paziente di fronteggiare le situazioni nuove, difficili e insidiose della vita.

SP: Questa prospettiva evolutiva, entro cui lei inscrive le forze motrici della nostra vita, fa pensare a un inconscio radicato nel cervello, che è capace di elaborare informazioni senza che nulla affiori alla coscienza. Già nella prima metà del XIX secolo, cioè ben prima delle scoperte di Freud, neurologi e psichiatri ne avevano dato una rappresentazione teorica.

Se oggi siamo disposti a credere che una forza sconosciuta e arcaica governa le nostre condotte lo dobbiamo anche a quei formidabili innovatori. Oggi la loro ricerca ha ripreso il cammino. In tutto il mondo, nuove evidenze stanno confermando quelle lontane intuizioni. La strada è lunga e molti gli ostacoli da superare. Tuttavia, non è di questo che qui possiamo discutere – anche se andrebbe seriamente riconsiderata l’ingenua rappresentazione della mente che la scienza cognitiva e certa neuroscienza hanno sin qui contribuito a formare. Non basta, infatti, descrivere ragionamenti, decisioni, intuizioni, immaginazione e altro ancora, come epifenomeni di attività cerebrali modulari; o rappresentare la vita inconsapevole come il lato in ombra della coscienza.

SP: Può chiarire meglio?

Ho sempre fatto fatica a comprendere cosa sia davvero la mente, fin dagli studi universitari. Nel tempo mi sono fatto l’idea che sia un altro di quei drammi concettuali che ci imprigionano e ci impediscono l’accesso a tanti territori ancora da esplorare. Se siamo d’accordo sulla sua esistenza, occorre innanzitutto distinguerla dalla consapevolezza. Mente e consapevolezza non coincidono. Pur muovendo idee ed esprimendo volontà, la mente non è in grado di autodeterminarsi. Le architetture attribuitele nel tempo sono basate sulla congettura (erronea) che essa sia all’origine delle azioni cui è associata. Dal canto suo, la consapevolezza non precede le attività della mente. Ne permette i movimenti, i transiti e le transazioni in un libero gioco tra strutture corticali e sottocorticali. Se proprio dobbiamo stabilire relazioni potremmo dire che essa è sincrona con la mente. Ma quest’ultima prende solo atto degli avvenimenti, non li produce. Ma di questo parleremo presto.

SP: Se capisco bene, allora gran parte della vita della mente si svolgerebbe al di fuori della consapevolezza. Soprattutto, il suo orizzonte sarebbe enormemente più vasto e profondo. Mi pare questa la portata della sua affermazione.

Per utilizzare un linguaggio metaforico, potremmo dire che la consapevolezza agisce sulla mente come un’onda di superficie che non influenza le correnti di fondo. La consapevolezza ci fa intendere la profondità delle cose, i passaggi del tempo, i colori dell’esperienza, ma non ci si impone. È uno stato naturale delle cose. Ogni volta che vi rivolgiamo seriamente l’attenzione ci si apre dinanzi una sconfinata quantità di dettagli e relazioni senza inizio, né fine. Temo che il termine-concetto ‘mente’ rappresenti la tentazione di una spiegazione facile. Ma è solo una parola come altre, che ci lascia nell’illusione di spiegare qualcosa. I nostri stessi giudizi razionali e morali, da sempre considerati fondamento della nostra vita di relazione, appaiono movimenti di superficie di attività profonde, complesse e instabili. La mia impressione è che se siamo stati capaci di sopravvivere a formidabili sfide evolutive lo dobbiamo, più di quanto si creda, alla saggezza delle nostre strutture biologiche arcaiche. Restituire importanza a tutto ciò ci rimetterebbe sulla strada di una ricerca che è solo agli inizi. Nei prossimi anni saremo chiamati a farci seriamente i conti. Proprio come dovremo rifare i conti con la nostra soggettività: che non è un’isola deserta in mezzo al mare e non è indipendente dalle attività di pensiero. La soggettività nasce nel corpo ed è il corpo a conferirle identità: un’identità ben più fluttuante e precaria di quanto non si creda. Concepita come è oggi appare solo un’elegante costruzione intellettuale.

SP: Prima ha alluso al fatto che l’inconscio, oltre che le vestigia del passato, porti in sé possibilità di sviluppi futuri della personalità, esercitando per la coscienza un’attività di anticipazioni e prefigurazioni.

Beh, qui un ruolo cruciale è svolto dall’intuizione perché lascia filtrare nel campo della coscienza elementi percettivi, rappresentazioni e istanze di pensiero dalla periferia della coscienza, ampliando così enormemente la funzione dell’inconscio. La sua funzione è eminentemente adattativa. Niente più dell’intuizione ci ha aiutato ad affrontare e risolvere difficoltà e problemi nel cammino dell’evoluzione. Questa forma di conoscenza, istintiva e inconsapevole, intercetta le informazioni salienti nel flusso ingannevole dei dati che ci investe ogni giorno. Ci fa leggere rapidamente le intenzioni degli altri. Entra in gioco in tutte quelle situazioni in cui ci è difficile riflettere, facendoci scorgere dettagli importanti eliminandone altri improbabili, incerti, incoerenti. Ci fa interpretare il linguaggio verbale confrontandolo con quello del corpo. Acuisce la nostra capacità discriminativa, facendoci vedere le cose in modo nuovo. Rende più viva la concentrazione, l’attenzione e la memoria, mostrandoci il lato oscuro delle cose. Modifica le nostre rappresentazioni della realtà senza chiedere aiuto alla logica (e non il contrario, come spesso accade). Utilizza elementi noti per integrarla e, se le cose non tornano, ci intima di abbandonarla. Ci tiene aperti ad altre spiegazioni possibili, perché sa da sempre che anche le evidenze più chiare possono essere ingannevoli.

SP: Forse possiamo concludere questa conversazione dicendo che la vita psichica e il senso delle nostre esperienze si esprime attraverso un’oscillazione continua tra processi coscienti e processi inconsci. Se l’inconscio completa il disegno che la coscienza fa della realtà vissuta, da esso emergono anche possibilità che ne eccedono l’orizzonte. La coscienza tende a considerare unilateralmente i propri dati, mettendo ai margini quelli emergenti dalle strutture profonde e oscure. Quando l’esclusione diviene radicale, l’inconscio proietta sulla vita psichica l’ombra sinistra del perturbante, dissolve l’asse che unifica il vissuto e l’evidenza naturale delle cose, vacilla la concordanza e la sintonia delle proprie esperienze con quelle altrui. Il paziente precipita in una condizione mai sperimentata prima, che rende estranea ogni cosa. Un nuovo mondo si insedia sulle rovine di ciò che sin lì era perfettamente ordinato. È l’avvento di un nuovo tempo: quello della sospensione dell’ordinario compimento di significato, dell’eclissi dell’Io, della crisi della presenza.

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